Metabox cambia.

Le cose cambiano e noi ne sentiamo il bisogno. Il plurale dipende dal fatto che metabox diventa un lavoro di gruppo: più punti di vista, più sensibilità.

La rete sta cambiando le cose e non perchè oggi usiamo Facebook per organizzare una cena ma perchè stiamo riscoprendo la nostra centralità proprio grazie al fatto di essere estremamente collegati.
Abbiamo riscoperto che siamo parte di un insieme che funziona meglio se ogni punto è partecipativo e non delega; stiamo scoprendo nuove modalità di comportamento, nuove modalità di assorbire e vivere gli stimoli che ci circondano.

Il nuovo percorso di metabox nasce da questo e apre le porte a tre nuove firme che attraverso le loro sensibilità ci proporranno i loro stimoli, quelli che percepiranno più adatti e più affini a questo periodo innovativo che vivremo sempre più intensamente.

Rita Meneghin è un’artista che lavora con l’immagine e le forme; per metabox scatterà delle foto legate ad una speciale quotidianità.

Alberto Guizzardi è un esperto di cinema e di letteratura ed esplorerà questi mondi proponendoci storie per le nostre storie.

Matteo Lion è un orecchio molto allenato e cattura sonorità evocative, intime, inaspettate.

E poi ci sarà Andrea Ferrato (io 🙂 ) che filtrerà gli impulsi più interesanti della rete e li commenterà cercando di evidenziare cosa e come stiamo cambiando.

La nuova casa di metabox la trovate qua >>> è sempre aperta e sarà un piacere ritrovarvi da quelle parti.


Una settimana fa apriva il webelieveinstyle pop-up shop.
Un progetto legato ad ulteriore progetto portato avanti a quattro mani (che in realtà sono molte di più) con Stefano Guerrini.

L’input era arrivato dai Fabric Division, due designer con le idee molto chiare, che ci hanno chiesto la collaborazione per organizzare e comunicare l’evento, inserito tra l’altro in un calendario di tutto rispetto quale il Festival dell’Arte Contemporanea di Faenza.

La pagina di Facebook, l’account su Twitter e il blog raccontano quello che è accaduto prima e dopo e riflettono l’entusiasmo che ha accompagnato questa breve avventura.

Un’avventura che ha posto le basi per progetti futuri in quanto questi tre giorni sono stati la cartina tornasole di come, cambiando le regole del gioco e mettendo in prima linea l’interazione e il prodotto come processo creativo, il banale momento dell’entrare in un negozio diventi un’esperienza di significati inaspettati.

Nello shop non erano esposti prodotti facili, i 7 marchi avevano portato la loro “potenza creativa” anche considerando il contesto in cui il loro capi sarebbero estati esposti (una tre giorni dedicata all’arte); chi è entrato nello shop non ha trovato dei semplici abiti appesi ma alcuni dei designer e altre persone addette che hanno accompagnato i clienti all’interno del progetto di ogni abito.

Le personali affinità con una linea o una tonalità si sono arricchite della vicinanza o meno al percorso creativo che aveva portato al capo.
Da qui le conversazioni si sono ampliate e l’interazione classica del negozio è diventata un ricordo; le conversazioni si sono concatenate con quelle degli altri clienti e il momento dell’acquisto è diventato un momento di condivisione.

Condividere una esperianza reale, non artefatta, che sia in un luogo fisico o nella rete è il modo più utile per attivare ed eventualmente concludere una vendita e anche se questo obiettivo non sarà raggiunto, sarà stato un investimento molto più efficace di una campagna pubblicitaria.


Giampaolo Colletti ha presentato a Bologna il suo libro “Wwworkers. I nuovi lavoratori della rete“.
Il libro fotografa la trasformazione che sta avvenendo in Italia nel mondo del lavoro dove, principalmente per scelta obbligata, molti hanno ridisegnato il proprio modo di lavorare considerando internet come punto di riferimento operativo, strutturale e di metodo.

Giampaolo Colletti è partito dalla propria esperianza personale per poi allargare la ricerca verso tutti coloro che hanno intrapreso questo nuovo modo di concepire l’attività lavorativa; la ricerca è una raccolta di esperienze tra le più diverse alcune delle quali sono riunite in schede nel  sito collegato.

Il dibattito bolognese ha messo in evidenza come la rete sia ancora percepita come ambiente non completamente collegato alla realtà: i primi dubbi esposti vertevano sul pericolo dell’isolamento, sullo sgretolamento del concetto di lavoro inteso come luogo di incontro di persone, di ideali, di esigenze, di esperienze.
Ancora una volta il valore profondo della rete fatica ad emerge: ecco le aziende “strane” che fanno cose inusuali (ma tanto c’è la coda lunga)… contiamo le www-aziende in modo che diventino un riferimento da considerare… mancano i finanziamenti “che in America finanziano le idee”…

Ho ascoltato visioni interessanti e condivisibili ma è venuto a mancare un approccio modale, sociale e realistico alla cosa (nel senso di “tera tera” 🙂 ).

Tralasciamo le cause principali (la crisi e la furbizia di certi pseudo imprenditori): la rete sta permettendo un approccio al lavoro completamente decentralizzato; passioni e competanze diventano elementi che si coagulano per l’arco di un progetto tornando liquidi al suo compimento. Alla fine del progetto si saranno create nuove relazioni professionali e si sarà acquisita nuova formazione.

I lavoratori della rete non sono aziende come le abbiamo intese finora (e comunque queste non sono escluse).
Le persone lavorano in rete esattamente come la rete funziona ed essendo in rete non sono mai isolate a meno che non lo vogliano. Gli ambienti di lavoro assumono fisionomie inusuali rispetto all’idea classica di azienda: i team si formano on e off line, il progetto cresce on e off line, i luoghi di incontro sono on e off line.

Questo modo di lavorare non è ad appannaggio dei più “furbi” o dei più “svegli”; questo modo di lavorare testimonia la comprensione del valore sociale della rete, valore che rimodella, rafforzandoli, i rapporti personali e le interazioni.
Le relazioni professionali guadagnano uno strato di informazione e di connessione che amplifica e diffonde le competenze.

Penso che essere wwworkers implichi una visone più ampia e a ciò si può arrivare solo con una interpretazione culturale della rete altrimenti sarà solo strumentale (importante ma non sufficiente in un’ottica di prospettiva).

Chiaramente alla cultura vanno affiancate delle azioni di sostegno e ciò non vuol significare aiuti economici ma più che altro agevolazioni strutturali che permettano, a questa evoluzione dell’imprenditoria, di poter lavorare non solo per sopravvivere ma soprattutto per costruire le fondamenta di una nuova economia di cui l’Italia ha una grande necessità.


La complessità raccontata da Don Norman è un territorio coinvolgente: la complessità come elemento sostanziale della nostra vita, come un valore positivo.
La sua interpretazione e la sua traduzione in un linguaggio lineare è il compito del designer che deve trasferirla negli strati più profondi del progetto, quelli non a stretto contatto con la persona. Gli strati più vicini vanno collegati ai fattori emozionali, al piacere.
In questo modo l’oggetto diventa seducente e ci attira la sua esplorazione al punto che riusciamo a trasferire gli eventuali livelli di complicazione ad una nostra incapacità e il piacere dell’uso ci porta a diradare le nebbie della complicazione.
Molto spesso ciò che leggiamo come complicazione, specialmente in una nuova tecnologia, è lo specchio di un nostro approccio che tende al rifiuto; prendersi il tempo di provare e sperimentare è spesso l’unica maniera per superare preconcetti e ricavare un vantaggio da ciò che prima sembrava un ostacolo.

Dal mio punto di vista poi il discorso si amplia verso ciò che è la parte più dirompente dell’innovazione.
Quello che molte persone non riescono a capire o ad intravedere, e tra questi molto spesso ci sono coloro che dovrebbero cambiare le cose,  è che la tecnologia non sta esclusivamente permettendo di fare in modo più semplice una cosa prima più complicata: la tecnologia sta attivando nelle persone un approccio nuovo, più articolato, inedito alle idee, alla creatività.
Quello che molti non riescono a capire, interpretando ogni innovazione esclusivamente come un aggiornamento, è che stanno nascendo nuovi approcci e nuove modalità che cambiano il modo di raccontare, di concepire una necessità, di costruire la qualità, di percepire la felicità.

Don Norman a Meet the Media Guru ha detto che “la conoscenza porta alla fantascienza”.

L’ultima domanda del question time gli chiedeva la sua posizione in merito a progetti di design che fondamentalmente non tengono conto delle reali esigenze delle persone (si parlava di bambini) e la sua risposta è stata molto semplice: barrare come cattivo design certi progetti; un inno ad una posizione costruttiva, al vivere con partecipazione ed esperienza le cose che ci circondano.


Energia nuova

16Mar11

Ci stanno imbrogliando e neanche troppo di nascosto.

Nella immensa tristezza per ciò che il Giappone sta subendo, in Italia si scalda la discussione sul nucleare; c’è di mezzo un referendum che sancirà la volontà degli italiani di scegliere questa strada ma già la politica “interessata” dice che è un processo che non si può fermare, inutile chiedersi quale possa essere la posizione delle aziende coinvolte nell’affare.

Si perché è ovvio che solo di un affare si tratta. E non lo dico da esperto ma da semplice ascoltatore di una radio, che non dovrebbe neanche essere troppo di sinistra 🙂 , che trasmette da un po’ di tempo a questa parte un programma che non dura neanche 7 minuti con un titolo un po’ infelice: MrKilowatt.

Il programma, condotto da Maurizio Melis, parla di risparmio energetico e di sostenibilità dal punto di vista economico ossia di come la sostenibilità energetica diventa risorsa.
L’ascolto da più di un anno; ho iniziato con l’interesse per il tema, per avere un’idea più concreta di come e se possa essere effettivamente possibile cambiare il modo di generare quell’energia di cui non potremmo fare a meno.
Ho scoperto cose fondamentali che nessuno racconta e che vengono lasciate all’esclusivo interesse del singolo quando invece dovrebbero far parte di quel livello di formazione e di civiltà di cui dovremmo nutrirci.
Ho scoperto quanti sistemi esistono per risparmiare energia, quanti sistemi alternativi esistono per produrla, come una semplice abitazione con pochi accorgimenti, non solo può diventare energicamente autosufficiente, ma può addirittura guadagnarci.
Ho scoperto che in Italia la maggiore risorsa energetica che abbiamo (quella geotermica) è sfruttata in modo irrisorio.
Ho scoperto che ci sono regioni virtuose (italiane!!!) che hanno attive politiche energetiche che se già solo imitate porterebbero nelle casse delle amministrazioni capitali utili.
Ho scoperto che le aziende ci guadagnano economicamente a perseguire programmi energetici basati sulla sostenibilità.
Ho scoperto che ci sono centri di ricerca che studiano, realizzano e mettono in pratica sistemi di risparmio e di produzione di energia che risolvono problematiche legate al territorio e alle condizioni ambientali così vari nella nostra penisola.

Per questo ho la certezza che se mi vengono a parlare di nucleare dietro c’è solo un interesse economico di pochi; quei pochi che hanno ben poco interesse ad un paese tecnologicamente e socialmente avanzato, quei pochi che non hanno certo interesse a lasciare a molti la possibilità di costruire piccole imprese (leggi posti di lavoro veri) legate all’energia, che si tratti di produzione o di risparmio.

Qui non si tratta di colore politico, si tratta di poteri economici che hanno un solo obiettivo e non è quello che dovrebbe avere l’amministrazione di uno stato avanzato sotto l’aspetto politico, civile e morale.

Ganbare Nippon!


Ulimamente fatico a scrivere.

Chi segue sa che leggerà solo le sensazioni e gli stimoli del momento, nessuna pianificazione editoriale, solo ciò che mi arriva forte e che decido di condividere.

Ultimamente guida una rabbia sottile, qualcosa che non riesce ad incanalarsi. E non che manchino gli argomenti, anzi…
C’è un mondo, che a volte mi sembra parallelo, che corre all’impazzata per la gioia e il piacere di farlo, che affonda le mani e la testa in ciò che sta cambiando completamente i nostri modi e le nostre abitudini.
Quel nuovo di cui non ci accorgiamo più perchè ci siamo assuefatti al concetto di novità e non riusciamo a respirare il profumo di ciò che è innovazione.

E invece quello che senti maggiormente attorno è la strenua difesa di un colore, di una etichetta, di una “marca”.
“Gli innovatori non sono interessati al colore del gatto, ma al fatto che prenda i topi. (Se non li prende, poi, cercheranno un altro gatto che li prenda).” Lo ha scritto Luca De Biase parlando della proposta dell’Agenda Digitale ma io metterei una I maiuscola a quegli Innovatori e renderei la frase Legge senza se e senza ma.

Si tengono sul podio dei vecchi ricchi e viziati solo per il terrore di perdere dei priviliegi raccontando di ridicole e surreali difese di libertà, si aggrappano a qualsiasi scusa e a qualsiasi bandiera pur di tornare in prima fila senza accorgersi di quanto siano poco credibili. Quanto dobbiamo ancora lavorare per pagare cifre insulse a questa sfacciataggine e a questa ipocrisia?

Poi capita di ascoltare personaggi che ti portano a pensare sul dopodomani della cultura e su come immaginare la sua fruizione, ti ritrovi a lavorare con persone che ritengono fondamentale la qualità del rapporto interpersonale, e da li costruiscono un progetto, e allora decidi che non può essere una strada troppo sbagliata.

Troppi segnali di un nuovo “rinascimento” continuamente schiaffeggiato da un unto “medioevo” e forse è solo una questione di tempo, quello di cui abbiamo perso il valore ed il peso e che non considera troppo la nostra presenza, quanto l’essenza che possiamo lasciare.


Viviamo un paradosso in cui da un lato c’è un livello culturale e, diciamo, morale sempre più livellato e verso il basso, dall’altro lato invece assistiamo ad una evoluzione tecnologica che ci avvicina ad oggetti sempre più funzionali e sofisticati che aprono possibilità e risultati fino a poco tempo fa relegati a fortunati possessori di ampi budget o alla sfera professionale.

Se a questo associamo la lenta, e opportunatamente osteggiata, diffusione della banda larga viene da pensare che probabilmente sarà proprio la tecnologia ad aiutarci a recuperare quei valori (lo spettro è ampio e la lista lunga) che si sono sfilacciati e sono stati trasfigurati da politiche e mentalità che una volta trovavamo in quella funesta cinematografia che prospettava futuri bui.

L’accesso ma anche la possibilità di produrre e diffondere l’informazione, il contatto sempre più semplificato con idee e visioni tra le più diversificate, l’accessibilità a strumenti di espressione sempre più immediati, non solo ci riportano ad una identità connotata e ad una personalità sociale ma ci riconfigurano anche una responsabilità rispetto a chi e a cosa ci circonda.

Non tutti diventeranno giornalisti o artisti ma la semplicità con cui certe azioni possono essere realizzate, amplificano la sensibilità.

La cosa che mi è piaciuta dei lavori di Rita Meneghin (che è anche un’amica e aggiungere il cognome mi ha fatto anche un po’ sorridere) è questo percorso espressivo che sfrutta i limiti di una semplice digitale per produrre immagini che vibrano per le loro “imperfezioni”.

Le immagini raccontano di una quotidianità che è ordinaria anche quando il luogo è esotico e lontano, ma di questa usualità rimane solo il condensato di emozioni, quasi come se l’obiettivo della digitale, impossibilitato a riportare un alto livello di fedeltà del dettaglio, si sia preoccupato di farci arrivare gli odori, le temperature e gli stati d’animo.

La prima mostra di Rita Meneghin si è chiusa la settimana scorsa, in una galleria con orari per pochi intimi (perchè impossibili 🙂 ), in una semi periferia bolognese: un test per un’artista che lavora con le emozioni anche con la tridimensinalità delle sue sculture, per ora ad appannaggio dei pochi frequentatori degli accoglienti aperitivi/cene/feste nella sua mansarda tra i tetti del centro di Bologna.

I punti di contatto tra le immagini e le forme intime delle sculture è tale che forse verrebbe da pensare all’unione dei due percorsi proprio per respirare maggiormente gli spazi emozionali che Rita riesce a trasmettere.


Un amico/lettore criticava lo spazio temporale tra un post e l’altro in questo blog, cosa di cui non sento il problema ma che stavolta si è decisamente accentuato. Probabilmente cambierà qualcosa in questo blog e molto probabilmente tornerà ai suoi presupposti iniziali sintetizzati nella frase di presentazione.

Avevo preso una deriva “social”: è un tema che mi appassiona molto e l’ho affrontato partendo proprio dagli ambiti strettamente legati a ciò che questa evoluzione porta alle persone.

Ma la sensazione è che in questa direzione l’argomento può solo portare ad un loop in quanto tutto non può che essere riferito alle modalità dei comportamenti umani che esistono da decisamente prima dell’avvento della rete e dei suoi progressi.

Stiamo avanzando verso una nuova direzione, in una terra nuova (la vita “aumentata”); possiamo usare strumenti ogni giorno più innovativi (nuove piattaforme, nuovi ambienti social, nuove tecnologie, nuovi device e ci sono tante figure competenti in Italia e all’estero che ne parlano quotidianamente); gli scopi, gli intenti sono innati in noi: comunicare, condividere, collaborare.

La distorsione attuale è che tutto questo viene convogliato in strategie principalmente legate al business anche quando i temi sembrano affrontati nei modi più alti (ma c’è sempre dietro lo sponsor bisognoso di una nuova “facciata”).

Quanti siamo su un social network, quanto parliamo di un marchio, quanto siamo raggiungibili.

In realtà la materia appartiene ad un contesto molto più ampio e complesso che l’euforia del nuovo e la frequente mancanza di visione hanno recintato in uno spazio apparentemente gestibile.

L’euforia del nuovo è evidente nella marea di media sociali che nascono continuamente; sempre più raffinati e per fortuna sempre più “naturali” ossia sempre più legati ai reali comportamenti delle persone.
Credo che sia chiaro che, a parte chi ci lavora e la nicchia degli appassionati, nessuno sia intenzionato a dover passare il tempo a gestire le proprie relazioni piuttosto che a viverle; non abbiamo bisogno di una serie di piattaforme dove comunicare, condividere, collaborare ma una serie di strumenti aperti che ci permettano di farlo al di fuori dei singoli social “recinti”, una nuvola di possibilità che ci segue e non viceversa.

Penso sia normale che Facebook abbia, e continuerà ad avere, la diffusione ed il successo che sta ottenendo ma credo che sia anche il nostro personale “The Truman Show” e durerà fino a che non ci stancheremo del cielo finto
Facebook è anni luce dal nostro modo naturale di relazionarci e la prova più tangibile sono i fallimenti (a parte l’eco mediatica di giornali e TV) di tutte le azioni con impronta sociale (i gruppi, le iniziative), in modo specifico per come poi questi strumenti vengono vissuti anche quando gli obiettivi sarebbero di tutto rispetto: la percezione della loro inefficacia è a volte disarmante.

Il mondo del business è entrato a piedi pari in questa evoluzione vedendola come la svolta dalla stagnante comunicazione monodirezionale. Impresa difficilissima per chi è abituato a parlare, ed eventualmente a usare un informazione di ritorno, ma sicuramente un passo avanti in una direzione che è comunque l’unica.
Poi tra il dire e il fare si sa come va a finire e, passata la prima ondata di curiosità, ci si stancherà ben presto delle iniziative cool di un’azienda che però contemporanemente fa saltare posti di lavoro  o dell’altra che sbandiera conversazioni sull’innovazione mentre frena l’evoluzione tecnologica di un intera nazione (la casistica è ricca di esempi).

Difficilmente un’azienda diventerà social se il suo prodotto e il suo DNA non lo è… e più passa il tempo, più le persone saranno consapevoli della loro vita “aumentata”, più questo diventerà evidente e non basteranno più le abili azioni evolute di pubbliche relazioni.

Ho costantemente in testa l’idea di vivere la preistoria di quella che sarà la vita “aumentata”; il momento è entusiasmante ma allo stesso tempo bisognoso di uno scatto in avanti e non credo dipenda principalmente da un fattore tecnologico che rimane comunque abilitante.
La sensazione è che si stia girando attorno ad un tema basilare e si costruiscano una serie di nuovi accessori che non arrivano mai a vedere l’insieme di un cambiamento.

Un cambiamento che si basa principalmente sulle nostre attitudini sposate ad uno strato tecnologico che deve assomigliare a noi e non il contrario.

“Tra 50 anni qualcuno potrà dirsi esperto dei social media” Gianluca Diegoli BTO2010


La Social Media Week appena trascorsa è stata una esperienza interessante soprattutto perchè, se doveva fare il punto della situazione, dal mio punto di vista ha discretamente fotografato il momento.

La mia partecipazione è iniziata il lunedì con un appuntamento in cui ero coinvolto con il progetto webelieveinstyle; ho poi proseguito dal mercoledì seguendo un paio di appuntamenti al giorno.
Quelle che seguono sono una serie di sensazioni derivate dalla partecipazione e dall’ascolto durante gli incontri.

C’è un approccio al tema piuttosto inusuale: tutto ruota attorno alle applicazioni piuttosto che sui tipi di vantaggi che queste portano a chi le usa. Stiamo parlando di persone che entrano in contatto tra loro atttraverso la rete, espandendo le proprie normali possibilità di interazione attraverso degli strumenti; in realtà sembra si parli sempre di questi ultimi tenendoli in primo piano. Gli applicativi social come dei nuovi sistemi operativi (con le usuali attese per l’ultima versione e le valutazioni su quello che prenderà più campo) solo che essendo noi la piattaforma, ed essendo il rapporto sociale un’esperienza legata a modalità strettamente personali, avremo sempre più bisogno di modalità plasmabili ad esigenze legate ai nostri ambiti (modali, di attitudine, di luogo).

Le idee non è che siano proprio chiarissime: in uno stesso panel un relatore dava una ricetta ad una start up, in merito a quali azioni compiere, mentre il relatore a fianco postava in contemporanea su Twitter il suo totale disacccordo (ma ha anche promesso un “vecchio post” sul suo blog per chiarire la sua posizione e sono in attesa di leggerlo 🙂 )

I relatori del 2.0 sono 1.0: l’incubo “marchetta” è stato costante. Pochi, nonostante l’ambito fosse assolutamente innovativo, sono riusciti a sostenere un intervento senza cadere principalmente sull’auto celebrazione e sull’auto referenzialità invece di tenere in superficie il tema da discutere inserendo, nelle trame del discorso, azienda e medaglie.
Forse va anche ripensato il modo di coinvolgimento degli sponsor: se è vero che un’azienda, in un ambiente social on line, deve ripensare il modo di conversare con il pubblico perchè questo non deve avvenire, a maggior ragione, off line?

La quantità forse non è più una garanzia: una delle sensazioni che non mi abbandonano dopo la Social Media Week è che i giochi non sono assolutamente fatti ed il raggiungere grandi numeri è solo una vittoria parziale. Siamo nella preistoria delle relazioni espanse grazie alla rete: continuiamo a considerare vincenti coloro che fanno i grandi numeri ma il tema in gioco assume valore sulle specificità e sulle vicinanze.
La generalizzazione ora funziona perchè vive della novità ma credo che realtà mirate possano avere oggi molto spazio e proprio puntando su quest’ultimo inteso come luogo, come area oltre che su servizi specifici per determinate aggregazioni di interessi.

Parlare dell’aria ha senso? L’aria si respira ed eventualmente se ne parla se non è particolarmente salubre o se, al contrario, è leggera e pulita. Non pensiamo di respirarla.
Così sono le nostre relazioni, le viviamo in modo innato: tanto più gli strumenti on line di relazione saranno “white label”, tanto più entreranno a far parte della nostra quotidianità.

“Social networks will be like air” Charlene Li


Volevo farvi una domanda: ma non vi siete stancati/saturati/infastiditi dagli spot delle case automobilistiche che tentano di insegnarci a diventare ecologisti proponendo delle auto che inquinano, ma un po’ meno, e facendoci la paternale su come dovremmo comportarci per farci intendere che in fondo loro la pensano proprio in quel modo?

Guardo spot per lavoro e non certo in TV: quello della Volkswagen mi avevano sufficientemente irritato, l’ultimo della FIAT, così contenta di farmelo vedere in anteprima via Twitter, mi ha fatto “sbottare”.

Ma abbiamo davvero un aspetto così imbecille? Sembriamo davvero persone che non sanno perfettamente che se ancora non vediamo auto elettriche in giro per le città dipende solo dall’abile dosaggio degli affari tra le case automobilistiche, petrolieri, affaristi affini e politici compiacenti? Sembriamo davvero così ingenui da non aver capito che le varie normative Euro-qualcosa vengono fuori con rituale cadenza in modo da obbligarci prima o poi a cambiare l’auto, quando di certo sono tecnologie note a priori?

Se proprio volete farci un favore ecologico e sostenibile, care case automobilistiche, cominciate a collaborare con le amministrazioni per creare un sistema di mobilità virtuoso che elimini ad esempio dalle città auto non elettriche.
Saremmo tutti (o molti) ben felici, ad esempio, di avere la nostra auto elettrica per la mobilità locale e poter usufruire di servizi di car sharing piazzati ai caselli delle autostrade per viaggi di lungo chilometraggio.

Va bene, lo so benissimo che sembra quasi una battuta, quale casa automobilistica cambierebbe in modo così drastico il proprio modello di business innovando realmente, cambiando sulla vera base delle esigenze di sostenibilità e su una visione realmente in prospettiva piuttosto che sul costante restyling di un modello antiquato?

Perlomeno, care case automobilistiche, cercate di evitare di prenderci in giro e non veniteci a raccontare che siete interessate alla sostenibilità quando sfornate in continuazione prodotti inutili presentati come l’ennesima soluzione ai nostri problemi e a quelli del pianeta.
Purtroppo avete dalla vostra parte una buona dose di persone che si eccitano all’idea del restyling di un vecchio modello che diventa innovativo solo perchè possono personalizzarlo o perchè dall’alto di un cassone con quattro ruote riescono a sostenere la loro scarsa autostima (pagandole entrambe salate ovviamente…).